«Il sogno da tifoso è la serie A, quando sarà il momento, daremo la nostra stoccata per la promozione». Era il refrain preferito di Walter Taccone nove mesi fa.

Lo aveva scandito entusiasta durante la presentazione della rosa, al campo Coni, mentre la squadra sfilava radiosa sul “green carpet” presidiato da Gianluca di Marzio. Era il giorno dell’armistizio, della storica riconciliazione con Mario Dell’Anno, della resurrezione dalle ceneri del vecchio alleato. Del riscatto della città dimenticata immortalata dalle telecamere di Sky. Una notte memorabile, sublimata dalla presentazione in pompa magna di Ciccio Tavano.

 

«Scegliamo prima gli uomini e poi i calciatori, i nostri direttori sanno che questa è la mentalità avellinese. Quelli che vengono qui devono mettersi in gioco e fare di tutto per portare l’Avellino in alto». Celebrazioni retoriche figlie dell’euforia, proclami troppo spesso rimodulati in base ai risultati altalenanti della squadra. Sono trascorsi pochi mesi da quel 13 Luglio, eppure si stenta a credere alle parole pronunciate dal presidentissimo al cospetto dei cronisti locali e nazionali. Dichiarazioni anacronistiche lontane anni luce dagli sconquassi correnti: i play off sono sfumati, Tesser è stato esonerato e la cura Marcolin non ha prodotto alcun beneficio.

Se non altro, a dispetto dell’invocata conversione tattica, l’avvicendamento tecnico ha evidenziato ulteriormente le manchevolezze di una compagine imbelle e asfittica, composta di pedine soggiogate da vecchi equilibri di spogliatoio mai estinti. Non a caso, ogni anno, i tifosi, con l’approssimarsi del traguardo play-off, sono costretti ad assistere all’oscura involuzione dell’intero parco giocatori, senza il conforto di alcuna motivazione apparente. Le statistiche dicono che i Lupi, dopo il filotto di fine anno, hanno inanellato una serie infinita di risultati negativi, conditi da una pletora di reti incassate: soprattutto al Partenio Lombardi, ex fortino inespugnabile declassato a remissivo terreno di conquista.

Taccone, spogliatoio a parte, deve spiegare l’utilità della scelta di Joao Silva in luogo di Trotta; i motivi dell’accantonamento di Mokulu (capocannoniere che ha siglato 11 reti); l’accanimento del mister nello schierare un Castaldo inguardabile; l’epurazione temporanea di D’Angelo; il mancato congedo di Rea; il dispendioso acquisto di Tavano; la fuga inaspettata di Schiavon; il ridimensionamento degli obiettivi a stagione in corso; le confessioni di Tesser sulla richiesta della sola salvezza (non abbiamo notizie di nessuna smentita) e tutte le storture che hanno connotato l’annus horribilis biancoverde.

Difficile non credere che le motivazioni dell’indegna sconfitta di Latina non siano anche extracalcistiche: se la dirigenza ha una minima idea di chi non si sia comportato da professionista, considerati i soli 4 punti che separano l’Avellino dalla salvezza, lo metta fuori rosa. Con la prospettiva di un maxi repulisti a traguardo raggiunto. Sarebbe il giusto tributo ad una tifoseria magnifica, che ha scortato la squadra in ogni stadio d’Italia senza badare ai risultati del campo.

Adesso i proclami estivi del presidente sembrano la parafrasi di un paradosso illogico. E lo striscione “prima uomini e poi calciatori” ricorda la pletorica domanda Marzulliana del concepimento dell’uovo e della nascita della gallina. Peccato, però, che “o’ pallone è n'ata cosa”. L’unica certezza, al momento, è proprio questa.

 

di Maurizio de Ruggiero

 

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